Unghie sporche.

Unghie sporche

Sono tornato a trovare mio padre questo pomeriggio. Era un anno esatto che non lo vedevo.
Ho parcheggiato davanti al cancello della mia vecchia casa, quella dove sono nato e cresciuto. La buca delle lettere era piena di carta: buste, bollette, pubblicità, qualche cartolina. Persino un mozzicone di sigaretta. La grande pianta di gelsomini, che con tanta cura avevamo piantato, si stava divorando la tettoia e intrappolava il cancello, spargendo a terra un tappeto di fiori bianchi marci e umidi.
Ho disincastrato i rami dal cancello, ho spinto con forza e sono riuscito ad entrare nel cortile. Davanti a me, dalle crepe dell'imposta rotta della finestra, filtrava un bagliore sottile.
Ho immaginato mio padre come l'avevo lasciato l'ultima volta. 
Seduto alla scrivania, il computer davanti agli occhi e senza maglietta.
Quando sono entrato, l'ho trovato esattamente così.
Seduto alla scrivania, il computer davanti agli occhi e senza maglietta.
Nell'aria, un odore forte, acre, di bruciato.
“Hai mandato a fuoco qualcosa pà?”
“Un hamburger” mi ha risposto.
I suoi occhi non si sono neppure mossi dallo schermo.

Bentornato a casa.
“Come stai?” ho chiesto
“Lavoro”
Mi fa piacere rivederti.
Ma nessuna sorpresa. Nessun sussulto, dietro a quella scrivania. 
Solo un uomo seduto, con una sedia libera vicino.
Fino ad un anno fa, su quella sedia, c'ero io, accanto a lui. 
Lavoravamo insieme io e mio padre. Lui compilava progetti, io li aggiustavo. Lui era la mente, io il braccio.
Mi ha sempre voluto architetto mio padre. È stato il suo sogno, credo dal giorno in cui sono nato. Un figlio che seguisse le sue orme e un giorno, il più lontano possibile, le superasse.

Ha scelto sempre per me. Non ha mai urlato né imposto con la forza le sue idee, per carità. Anche se forse sarebbe stato meglio. Lui usava gli occhi. Quando provavo a dire “vorrei fare questo” lui mi rispondeva “fallo pure, fai come vuoi” ma i suoi occhi dicevano il contrario. Ci ho messo un bel po' a capire quanto fossero forti quei suoi sguardi, quanto mi entrassero dentro.
Ha scelto per me le suore, la scuola, il liceo scientifico, l'università. A volte, credo, persino gli amici. 
Inutile dire che io l'architettura l'ho odiata da subito. Dalla prima parola del primo libro di testo. Non ci trovavo nulla in quella materia, tutta righe, calcoli e accostamenti.
Mio padre voleva per me una faccia pulita.
Io sognavo le unghie sporche.

È stato così che, verso i vent'anni, ho iniziato a sdoppiarmi. Sono diventato due persone che alle volte convivevano, ma molto più spesso combattevano per trovare un vincitore.
Da una parte il ragazzo con la faccia pulita, quello che si mostrava agli altri, che sorrideva ai pranzi di famiglia, che scendeva a fare colazione in vestaglia di seta.
Dall'altra, il ragazzo dalle unghie sporche, che mangiava gli spaghetti con le mani, che si rinchiudeva nei bagni per ore, che andava a puttane la sera.
Alla fine dell'università, mio padre mi ha proposto di lavorare con lui.
Mi ero appena laureato e avevo iniziato a cercare un lavoro, ma il periodo non era dei migliori e faticavo a trovarlo. Così alla fine, ho accettato.
Mi ero così convinto di essere un ragazzo dalla faccia pulita, che alla fine, quello dalle unghie sporche ha preso tutto, si è rinchiuso in una stanza e si è ingoiato la chiave.
È stato allora che mia madre ci ha lasciato. Ha fatto le valigie e se n'è andata in Svizzera da sua sorella. Per quel che ne so, è ancora li.
Ho lavorato con mio padre per quasi tre anni. Tutti i giorni a ritmo cadenzato. 
Eravamo bravi, la mia entrata in società alleggerì molto il suo carico di lavoro e gli permise di dedicarsi più alle relazioni esterne. Avevamo stretto una collaborazione con un altro studio e, verso il secondo anno, ci affidarono un progetto importante in Israele. 

Mio padre era orgoglioso di me, mi regalò un viaggio di una settimana in Sud America e una macchina nuova. Aveva in serbo per me la sua grande mossa. Affidarmi lo studio.
Poi, una mattina di Maggio, proprio un anno fa, per la prima volta in vita mia, mi sono alzato, mi sono dato una sciacquata alla faccia e ho sceso le scale per andare a fare colazione senza indossare la vestaglia. Addosso solo un paio di pantaloncini.
Me ne sono accorto solamente a tavola. 
Mio padre stava lavorando al computer e accanto aveva una fetta di pane con la marmellata.
“Paolo, che fai?” mi ha chiesto.
Io non ho detto nulla.
Ma in quel momento è successo tutto.
Il ragazzo dalle unghie sporche ha spalancato le finestre della stanza dove si era rintanato. 
Si è affacciato, ha urlato, è ritornato dentro, ha preso tutti gli oggetti sulle mensole, nell'armadio, sul tavolo e li ha scagliati via. 
Ha scavalcato ed è uscito fuori facendo rumore, stiracchiandosi, riprendendosi i suoi spazi. 

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