Il corridoietto.

In ufficio da me c’è un corridoietto. È un vicolo cieco stretto e lungo, che non porta da nessuna parte, adibito a magazzino. Un ripostiglio improvvisato con scaffali e vecchi mobili, qualche scopa, un secchio con lo straccio, quasi sempre buio.
Non ci entra nessuno, solo io, anche se non c’è una porta a tenere fuori le persone.
C’è una luce, ma non la accendo mai, e mi piace infilarmi lì dentro, perché so che nessuno verrà a cercarmi.
Mi piace stare lì, perché mi preserva.
Nel mio lavoro vedo e sento tante persone, ed è un bene.
Mi piace stare con le persone, le cose migliori si fanno con gli altri, eppure alle volte sento che ho bisogno del mio corridoietto buio e stretto.
Ho bisogno di nascondermi lì, di ritrovare il filo del discorso, sentire che ho da dirmi, anche solo di stare ad occhi chiusi per un minuto. Per questo motivo l’ho allestito con cura.
E spesso mi ritrovo a fare lì dentro cose improbabili, tipo mangiare una mozzarella in piedi appoggiato ad uno scaffale o sdraiarmi per terra per risposarmi.
Perché nel corridoietto mi sento libero di essere tutto quello fuori non so o posso essere.
Mi sento libero di provare dichiarazioni d’amore strampalate, o ficcarmi le dita nel naso, fare i gestacci o far finta di urlare, impazzire tutto d’un tratto e poi diventare gentilissimo, parlare da solo a due voci o persino con un coro.
Lì dentro non devo rispettare la grammatica e le buone maniere. Ed è molto importante.
Per questo poche persone sono entrate nel mio corridoietto.
Le poche che sono entrate e lo hanno visto fino in fondo, sono le persone importanti per me, perché ne hanno capito la verità e ne hanno rispettato sempre il silenzio.
Io cerco di fare lo stesso con il loro. Perché credo sia un dovere di tutti difendere il proprio corridoietto, fosse pure con una forchetta di plastica con un dente spezzato, sia diritto di tutti dire:
"Senti, nel corridoietto mio, non ce devi entrà".

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